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Fast fashion: cosa sapere

 

Che cos’è la Fast Fashion?. 1

Da dove arriva la fast fashion?. 1

I vantaggi apparenti per i consumatori 1

Chi acquista fast fashion?. 2

Ma chi ci rimette in tutto questo?. 2

In definitiva, quanto inquina la fast fashion?. 3

Che cos’è la Fast Fashion?

La caratteristica principale della fast fashion è la velocità. Velocità nella produzione industriale dei capi di abbigliamento; velocità nella distribuzione degli stessi all’interno delle grandi catene commerciali; velocità nel consumo del capi di moda e nella produzione massiccia di rifiuti.

Ma cosa significa il termine inglese fast fashion? Fashion ovviamente fa ferimento alla vendita di capi di abbigliamento; fast perchè questi abiti hanno due caratteristiche: sono “veloci” in termini di costo (il prezzo è sempre bassissimo!) e vengono riassortiti alla velocità della luce.

I capi di abbigliamento prodotti dalla fast fashion sono praticamente ovunque: centri commerciali, grandi catene, strade del commercio. Vengono prodotti con lo scopo di “attrarre” il consumatore in base a due caratteristiche: l’estetica e il prezzo. Il consumatore è invogliato all’acquisto mediante l’esposizione di un prodotto bello da vedere ed economico da acquistare. Un binomio perfetto che ha generato la nascita di veri e propri mostri nel mondo dell’industria di questa moda spazzatura.

Da dove arriva la fast fashion?

Dagli Stati uniti, ovviamente. Se ne è parlato per la prima volta sul New York Times nell’89 a proposito dei capi di abbigliamento Zara che in quell’anno apriva il suo primo store a New York. In quell’articolo sul New York Times si faceva riferimento ad un nuovo modo di intendere il business dell’abbigliamento. Una moda in cui i capi non si susseguivano con l’alternanza delle stagioni, bensì con la fine materiale dei prodotti da consumare: e così, velocemente, tra gli scaffali di Zara ogni 15 giorni nasceva una nuova collezione ad un tempo record che non concedeva agli utenti nemmeno il tempo materiale per consumare realmente il prodotto.

Intorno agli anni 70, la fast fashion ha conosciuto il suo boom in termini di produzione dei capi di abbigliamento: così sono nate le prime aziende che all’inizio erano a conduzione familiare; successivamente si sono trasformate in vere e proprie industrie i cui tempi di produzione sono divenuti vertiginosi.

I vantaggi apparenti per i consumatori

L’imput per il consumatore è quello di poter acquistare capi di abbigliamento con frequenza (quindi rinnovando il guardaroba anche due volte in una sola stagione), ad un prezzo decisamente conveniente. In più il consumatore è invogliato all’acquisto perchè i capi sono belli (visto che nel 90% dei casi sono copiati da brand di moda famosi!). Quello che il consumatore non sa perchè ovviamente non è esplicitamente dichiarato, è che questa moda veloce in realtà ha un costo altissimo, in termini di inquinamento, manodopera e lavoro.

Il brand più in voga negli ultimi anni in materia di fast fashion è sicuramente Shein. L’azienda che sembra recentissima, in realtà ha alle spalle già 15 anni di attività. Vende esclusivamente on line attraverso una piattaforma e-commerce. Cosa vende? Un po’ di tutto. Si tratta di prodotti cinesi, ovviamente, messi in commercio a prezzi stracciati. Shein è sicuramente uno degli e-commerce più popolari al mondo; i suoi numeri sono impressionanti (basti pensare che l’ultima quotazione era di circa 60 milioni di dollari). Ma che cos’è Shein? Come funziona realmente? Ma soprattutto come si fa a caricare una quantità così alta di prodotti su una piattaforma ogni singolo giorno?

Ogni giorno sulla piattaforma e-commerce di questo sito vengono caricati 500 nuovi prodotti. Come può un brand avere una tale capacità produttiva? Semplicemente copiando prodotti altrui; Shein copia da altri marchi di moda, da artisti, da professionisti. Tutto è copiabile ed è per questo che l’azienda è letteralmente sommersa da cause di plagio.

Chi acquista fast fashion?

Giovani, giovanissimi consumatori. Utenti la cui forza d’acquisto è ovviamente bassa ma anche utenti motivati da quello che potrebbe essere definito uno dei più grandi mali di questo secolo, “la necessità di accumulare cose” che in un attimo diventa dipendenza da “acquisto convulsivo”. I più giovani sono sicuramente le vittime principali di queste aziende che in fondo non fanno altro che vendere e rendere possibile il sogno: possedere di cose “belle” che “sembrano” di lusso e poterle acquistare ad un prezzo stracciato.

Si, perchè i prodotti di Shein ovviamente essendo copiati da quelli di altri brand o di altri artisti non sono affatto brutti esteticamente; anzi sono molto attraenti (anche grazie allo straordinario lavoro di fotografie e video messo in opera dall’azienda). E così il desiderio di molti di possedere un oggetto bello e costoso destinato a pochi diventa la possibilità di tutti; il possesso dell’oggetto che resta bello (o almeno così sembra) con il vantaggio di essere economico. Il sogno del lusso che diventa alla portata di tutti; il desiderio di possedere continuamente qualcosa di nuovo pronto ad alimentare ogni ego, d’un tratto viene esaudito.

I più giovani, quindi, sono i consumatori abituali di fast fashion e di altri e-commerce che propongono oggetti cinesi “apparentemente belli e di qualità” a prezzi vantaggiosissimi. Gli stessi giovani che sono attivissimi sul fronte della salvaguardia dell’ambiente; gli stessi, quindi, che scendono in piazza per difendere la natura con i suoi fiumi, laghi e campo fioriti; gli stessi che acquistano i prodotti più inquinanti al mondo.

Ma chi ci rimette in tutto questo?

A pagare il prezzo più alto sono sicuramente i lavoratori. Sfruttati, sottopagati, in alcuni casi schiavizzati. Turni massacranti, stipendi da fame e ovviamente zero diritti. Una produzione di massa al minor salario possibile. Le grandi aziende della moda spazzatura quasi sempre delocalizzano la produzione in paesi come Tunisia e Marocco dove la manodopera ha un costo bassissimo. I turni di lavoro, come detto, sono massacranti e spesso a lavorare sono soprattutto donne e bambini. Il basso costo di produzione naturalmente rende possibile i prezzi bassi dei prodotti in commercio.

A rimetterci però non è solo il lavoro in termini di sfruttamento della manodopera ma anche la terra. L’impatto ambientale della fast fashion è devastante. Innanzitutto perchè non c’è un controllo qualità sulla filiera produttiva: si parte dall’impiego di tessuti di bassa qualità, spesso nocivi poichè carichi di sostanze chimiche e si passa all’accumulo di pesticidi, coloranti, sostanze chimiche tossiche adoperate per colorare o sbiancare. L’intera filiera produttiva della fast fashion diventa quindi motivo di inquinamento ambientale. Il tutto, ovviamente, reso ancora più grave dal consumo usa e getta di questi prodotti che – come in un circolo vizioso al contrario – genera continuamente sempre più inquinamento.

Ma, all’atto prativo, quanto inquina una t-shirt acquistata a 2 euro? Per realizzarne una sono necessari quasi tremila litri di acqua anche perchè le piante di cotone vanno continuamente irrigate. I residui tossici di tutti i prodotti cinesi e naturalmente sintetici (che tra le altre cose contengono piombo, pfas e ftalati in percentuali che vanno ben oltre quelle consentite dalla legge) ovviamente finiscono nei fiumi, quindi nel nostro mare. Finendo per inquinarlo.

Ma non è tutto. Secondo molte pubblicazioni scientifiche questi tessuti cinesi non sono salutari e il contatto con la pelle rischia di rivelarsi altamente tossico. Insomma si inquina l’ambiente e ci si arreca personalmente un danno fisico.

Infine, uno dei grandi problemi della fast fashion riguarda la velocità con cui il prodotto viene consumato e gettato dal consumatore. Com’è facile immaginare una t-shirt pagata 2 euro non avrà lunga vita e probabilmente non durerà nemmeno il tempo di una stagione; ciò vuol dire che il prodotto cinese viene acquistato, velocemente consumato e velocemente gettato. Tradotto in numeri, ogni anno ci sono 92 tonnellate di rifiuti tessili, di cui solo una minima parte (circa il 15%) viene riciclata.

La maggioranza di queste tonnellate di rifiuti arriva proprio dal fast fashion perchè appunto il consumatore è indotto ad acquistare convulsivamente (spesso acquista di più di ciò che serve incentivati dal prezzo basso), consuma velocemente (la qualità della nostra maglietta è così bassa che non durerà più di qualche lavaggio in lavatrice), ed infine getta, producendo rifiuti in un circolo della morte dell’inquinamento che inizia nel momento in cui il prodotto viene progettato (rubando idee e lavoro di brand e designer), prosegue nella produzione inquinante e termina nell’accumulo di rifiuti che non possono essere nemmeno riciclati.

In definitiva, quanto inquina la fast fashion?

L’intero settore moda, ogni anno, produce oltre un milione di tonnellate di gas serra, che corrisponde al 2% del totale delle emissioni a livello globale. Si tratta di uno dei settori maggiormente inquinanti nel mondo delle industrie, anche a causa delle elevati percentuali di acqua che vengono consumate per produrre tessuti. Secondo gli studiosi, oltre il 20% delle acque del pianeta è inquinato proprio dalle industrie tessili; uno delle cause principali dell’inquinamento sarebbero i coloranti e gli agenti chimici utilizzati per la colorazione dei tessuti. Infine, l’industria tessile è quella che consuma la percentuale più alta di energia elettrica ed è anche quella meno attenta alla produzione di energia da fonti rinnovabili.

Insomma, la moda è seconda solo al petrolio in materia di inquinamento ambientale.

L’alternativa al fast fashion, o meglio alla moda usa e getta, esiste. Non è necessario dover acquistare capi di alta moda, si può risparmiare acquistando ai mercatini dell’usato e quindi mettendo nuovamente in circolo un uso dei tessuti che altrimenti sarebbe destinato semplicemente ad inquinare il nostro pianeta. Nella lotta alla salvezza del pianeta c’è anche la scelta di non acquistare merce spazzatura (dagli abiti agli oggetti).

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