Sia che si tratti di persone singole o di aziende, uno degli approcci migliori ad un investimento responsabile è l’esclusione. In Europa, come conferma un report pubblicato da Eurosif, sono 10mila i miliardi di euro investiti con questa tipologia di approccio, ma negli ultimi anni questa strategia finanziaria è stata accostata ad un’attenzione sempre crescente alle tematiche legate all’ambiente e al sociale. Il cosiddetto “impact investing” riguarda principalmente il mondo industriale, ed è mosso da una certa volontà di influenzare in maniera positiva la transizione verso un mondo più attento ai consumi e agli sprechi, in cui anche gli investimenti finanziari riescano a mantenere il passo con etica e valori sociali, riducendo di conseguenza il rischio patrimoniale.
A seconda del grado di esclusione che i player intendono attuare, si possono individuare tre dimensioni dell’impact investing: esclusione, inclusione o approccio diretto. Le prime mosse delle aziende con un mandato socialmente responsabili saranno attente ad escludere dal proprio portafoglio intere industrie, come ad esempio quella degli armamenti. Non di rado si assiste ad una “selezione” dei titoli in ottemperanza alle normative ambientali e agli standard internazionali, livello ancora più accurato di attenzione all’etica anche nell’investimento. L’altra possibilità in mano alle aziende è una tattica inclusiva, un trend di mercato che premia fondi e società in grado di garantire elevati standard ambientali, sociali e di governance. Ci sono anche investitori che optano per una strategia tematica, focalizzata cioè su uno specifica tema che è fortemente legato alle questioni ambientali.
Per le aziende che preferiscono essere ancor più attente a determinate dinamiche, l’impact investing e l’active ownership costituiscono importanti alternative: si tratta di due opzioni totalmente differenti tra di loro, ma in grado di premiare sostenibilità e progetti socialmente utili. Nel primo caso, spazio in portafoglio ad investimenti in aziende che abbinano i risultati finanziari ad una serie di progetti in grado di produrre piccoli benefit per l’ambiente o per la società. Si tratta ad esempio di quelle realtà che aiutano le popolazioni in difficoltà o maggiormente attente ai cambiamenti climatici e a come influire il meno possibile con l’evoluzione ambientale. Con l’active ownership, invece, è possibile influenzare direttamente le scelte di un fondo o di un’azienda. Voti e opinioni possono infatti risultare decisivi nella promozione e nell’adozione di comportamenti utili per la società e l’ambiente, nell’ottica della massima sostenibilità possibile.
Anche gli investitori singoli possono muoversi in tal senso, sfruttando le peculiarità del divestment. Capita sempre più frequentemente che piccoli gruppi di cittadini pressano sui grandi investitori per non investire in aziende ritenute globalmente inquinanti o in coloro che producono armi di distruzione di massa. Se il divestment può rappresentare per il cittadino un piccolo passo per cercare di convincere i grandi investitori, per essere ancora più incisivi i risparmiatori possono districarsi tra i vari Piani Individuali di Accumulo. Anche i PAC possono infatti spostare l’attenzione su una finanza maggiormente sostenibile, con la variante di una decisione che è più facilmente adottabile. Gli investitori, dopo un’attenta ricerca di mercato, possono privilegiare fondi e azioni “green oriented” e valutare cambi di investimenti con una ripartizione di portafoglio che premi ambiente e sociale.